Il Corriere della Sera
Il filo magico che unisce Carlo Levi e d'Annunzio

Con Maestri futili? (Aracne, pp. 144, 11) lo studioso di letteratura Donato Sperduto ha compiuto un'operazione azzardata ma suggestiva: quella di avvicinare Gabriele d'Annunzio, Carlo Levi, Cesare Pavese e il filosofo Emanuele Severino, per cogliere le affinità che li uniscono sul tema della futilità. «Volente o nolente - scrive Sperduto - ciò che accomuna gli autori analizzati è l'aver messo l'accento sulla futilità del pensiero e dell'azione umana». Il primo dei cinque capitoli in cui è diviso il libro mette a confronto le opere di Levi Paura della libertà e Quaderno a cancelli con il modo di affrontare il problema dell'apparire e quello della libertà da parte di Emanuele Severino. Le analogie con il pensiero del filosofo, secondo Sperduto, non dovrebbero sorprendere: entrambi si oppongono alla concezione classica del tempo e ritengono che, al di sotto del tempo meccanico, esista il tempo vero, immagine di «un fluire eterno» per Levi e di «un apparire e scomparire dell'eterno» per Severino. In tutto il capolavoro di Levi, Cristo si è fermato a Eboli, ci sarebbe un riferimento costante a d'Annunzio, aspetto mai sottolineato dai critici letterari. Lo prova il confronto tra la scoperta del «mondo magico» dei contadini lucani, dimenticati dalla storia ufficiale, da parte di Carlo Levi e la scoperta del tesoro di Micene di cui parla d'Annunzio nella tragedia La città morta. Levi, sostiene Sperduto, reinventa temi dannunziani come quelli de La figlia di Iorio e de La fiaccola sotto il moggio, anche se critica in d'Annunzio (a cui contrappone la sua visione del mondo contadino) il fatto che il poeta pescarese degradi quel mondo immobile a teatro e strumento retorico di una vicenda personale. C'è un parallelismo tra il Quaderno a cancelli (così intitolato perché Levi si serviva di una tavoletta con una rete dentro le cui caselle poteva tracciare le lettere) che scrisse nel buio della cecità in seguito a una operazione alla retina e il Notturno, composto da d'Annunzio su piccoli foglietti di carta dopo aver subito un grave danno all'occhio destro durante l'occupazione di Fiume. Sperduto, che ha curato il volume Carlo Levi inedito, in cui presenta quaranta dei 146 disegni che questi fece, insieme a vari quadri, durante il periodo di cecità, sottolinea come in ambedue ci sia il tentativo di richiamarsi alle immagini rimaste nella memoria. L'autore riconosce però che «per l'esattezza, soltanto Pavese e Levi parlano esplicitamente di futilità». Carlo Levi lo fa nel Quaderno a cancelli, vedendo nella futilità il punto di partenza di ogni determinazione umana, nel «fluire dell'indistinto originario» di Paura della libertà o riferendosi alla descrizione del «Pantano» nel Cristo. In questo capitolo conclusivo, che esamina le corrispondenze tra Levi e Pavese, con Il mestiere di vivere, scritto al confino a Brancaleone Calabro, e La casa in collina, Sperduto sottolinea come il tema della futilità emerga potentemente: Pavese ricorre continuamente ai termini «futile» e «inutile» e la coscienza della futilità, anche degli atti più essenziali come il mangiare, lo porta a considerare futile la vita stessa. La tesi di fondo del libro è che, sebbene questi scrittori intendano in modo non uniforme l'ambiguo concetto di futilità, la vera alternativa alla «crisi» dell'uomo contemporaneo non può che essere rappresentata dal pensiero futile. Con questi saggi Sperduto intende lanciare una sfida consistente nell'avere il coraggio di tener conto della futilità basandosi sull' etimologia del termine che significa «lasciar correre». Nella prefazione Giuseppe Lupo osserva che la loro «bussola» è l'aspirazione che la cultura dello «scorrere» si radichi nella nostra condizione di moderni anziché «osservare un po' impauriti il trionfo dell'utile».

Link al sito
Informativa      Aracneeditrice.it si avvale di cookie, anche di terze parti, per offrirti il migliore servizio possibile. Cliccando 'Accetto' o continuando la navigazione ne acconsenti l'utilizzo. Per saperne di più
Accetto