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í‰ uscito in libreria in questi giorni l'ultimo libro di Pino Dato, scritto per Aracne Editrice, «L'ultimo anti-americano - Goffredo Parise e gli Usa: dal mito al rifiuto». Si tratta di una ricerca sincronica della documentata visione del grande scrittore vicentino sull'America, i suoi miti, i suoi vizi, i suoi limiti, partendo da quella iniziale degli americani sulla piazza palladiana del 1956 («Gli americani a Vicenza»). Quest'analisi colma un rilevante vuoto di critica e eredità ufficiali parisiane, perché scopre molte questioni nuove o sempre tenute sottotraccia e porta alla luce gli estratti di alcuni inediti presenti alla Casa Parise di Ponte di Piave. PROLOGO Una volta Benedetto Croce, che non era credente, scrisse: «Perché non possiamo non dirci cristiani». La frase fece il giro del mondo. Non so come la pensassero quel paio di miliardi di musulmani e buddisti (e induisti) che pure, al tempo di Croce, vivevano con idee diverse la vita di questo mondo. Non è nella storiografia, la loro opinione, eppure avrebbero potuto dirgli: «Parla per te». Questo per dire subito una cosa: abbiamo, in Occidente, una feroce mania di autoreferenzialità e onnipotenza. Pensiamo, parliamo, ci infervoriamo in un turbine di concetti e princìpi come chi è convinto che il mondo sia senza discussione suo, in quantità e qualità. Quantitativamente (come numero di anime), non è vero. Qualitativamente, è tutto da verificare. Se l'idea di Croce ha ancora un senso per un occidentale (onestamente non è facile dire di vivere, ancor oggi, come se quella storia in Galilea non fosse mai stata scritta) ad essa sono andati a sovrapporsi nel tempo altri aforismi, altre astrattezze, altre definizioni che un po' le somigliano. E che lentamente ci sovrastano a loro volta. Il riferimento a Croce, non cristiano dichiarato, è stato frequente e strumentale. La frase, estrapolata dal contesto, è solo una bella frase: in realtà il filosofo si riferiva al trasferimento dell'idea del Dio cristiano nella storia e ne prendeva adeguatamente atto. Non era un omaggio a una religione. Proviamo a sostituire la parola «americani» a quel «cristiani» di Croce. Ebbene, se ai tempi del filosofo napoletano dire «perché non possiamo non dirci americani» avrebbe potuto sembrare uno scherzo verbale di cattivo gusto o una specie di blasfemia, oggi quella sostituzione è più realistica che mai. La frase non farebbe scandalo. Anzi attira, richiamando assonanze, linguaggi, culture, consumi, retoriche, che senza importanti obiezioni appartengono alla vita di tutti i giorni e hanno attraversato i decenni (grosso modo sessant'anni) senza soluzione di continuità. Dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) all'aggressione alle torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001, dalla catastrofica - e persa - guerra in Vietnam alla altrettanto catastrofica guerra in Irak, senza contare molti altri conflitti 'minori', in Occidente e in Italia in particolare abbiamo percorso tutti (coscienti o no) le nostre strade sul filo di un'alternativa naturale e quasi implicita: americanismo o antiamericanismo. Siamo stati tutti, volenti o no, filo o antiamericanisti. Qualcuno potrebbe a questo punto interferire chiedendo: tertium non datur? Vale a dire: non è possibile un atteggiamento di atarassica neutralità? Teoricamente è possibile, ma è un atteggiamento raro e in linea di principio del tutto improbabile. Va chiarito un aspetto del problema (concreto): americanismo non è America. L'americanismo e il suo anti sono atteggiamenti dello spirito, sono l'estremizzazione di quello che si ritiene un valore assoluto. Alla religione cristiana evocata da Croce è stato sostituito un modo di vivere, di essere, di sentire. Laici, non religiosi. Ciò ha camminato ed è cresciuto in via esponenziale sulle strade di un progressivo, straordinario, sviluppo di alcune storie di questo mondo: il commercio, la tecnologia, il consumo, la comunicazione planetaria, la produzione industriale. In una parola oggi di moda, la globalizzazione. Non animata da un dio spirituale ma da un dio sensitivo, materiale, che corre sul binario del bisogno. L'America è un grande paese che può piacere in alcune sue parti e in altre meno, che può ispirare, coinvolgere, attrarre, irritare. Come la Francia, l'Italia, la Cina. Tuttavia l'americanismo - e il suo opposto che dalla sua stessa radice cresce - sono sentimenti consapevolmente estremizzati per incorniciare con enfasi un concetto-quadro che esalta al massimo o che al massimo infierisce. Dietro i due eccessi ci sono due sentimenti totalitari di accoglienza o rifiuto. La potenza dell'America nel mondo è una realtà tranquillamente acquisita, nessuno può dire di non averla in qualche modo percepita. La capacità degli Usa di vendere, comprare, imporre prezzi e cartelli, distribuire, sovrastare, diffondere nel mondo merci, princìpi, e anche crisi (come cronaca e storia recenti hanno insegnato) è fuori discussione. La sua potenza monopolista di paese che non
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