
Rivista di studi letterari e culturali “Altre modernità” - Università degli Studi di Milano
Jeanette Winterson è scrittrice complessa, a ragione considerata come una delle eredi più prossime di Virginia Woolf, non solo dal punto di vista della poetica, ma anche e soprattutto per la sofisticata ricerca stilistica che la contraddistingue. Nel contesto critico italiano, persino quello specifico dell'anglistica, non è profilo molto frequentato, forse anche in ragione della sua giovane età, che di certo implica un percorso artistico ancora in progress. Per questo la monografia firmata da Silvia Antosa già nel 2008, e pubblicata nella preziosa collana Studi di Anglistica (diretta da Leo Marchetti e Francesco Marroni), rappresenta una operazione critica di rilevante interesse e coraggio. Antosa, tirando le fila di un progetto di ricerca molto lungo e di cui lei stessa rende conto nella sua introduzione, affronta una porzione consistente – e io credo la migliore – della produzione di Winterson, ragionando soprattutto sulla questione dell'intertestualità come espediente cotruttivo nel quale la scrittrice inglese contemporanea dimostra particolare maestria. Partendo dal primo romanzo wintersoniano, acerbo e intensamente autobiografico (Oranges Are not the Only Fruit), Antosa sviluppa un percorso analitico preciso, nel quale le istanze tematiche, indubbiamente connesse al “Lesbian postmodern Bildungsroman”) confluiscono in scelte di stile ed espressivo spesso non facili, e sempre efficaci. The Passion, Sexing the Cherry e Written on the Body sono altrettante tappe del viagigo intepretativo che Crossing Boundaries ci propone. Il penultimo capitolo prende in considerazione le riflessioni sulla vita e sull'arte contenute in Art & Lies, mentre l'ultimo capitolo esamina, non senza rilevarne le problematicità, Gut Symmetries e The Powerbook, fermandosi appena prima dell'ultima svolta, fantascientifica ed ecologista, della narrativa wintersoniana con The Stone Gods.
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