Lettera Donna
Bianca a metà

È immobile, sulla sua piccola bicicletta gialla e nera: la mano sinistra ferma sul manubrio, quella destra tra la manopola e il freno. Bella e con lo sguardo enigmatico. I raggi del sole le incorniciano il volto ancora piccolo, schiuso tra una nuvola di capelli raccolti. Una bambina sospesa tra due mondi. A metà. Come su un’altalena: lo sguardo sull’Europa, l’Africa alle spalle. Con l’accento bergamasco, imparato dal padre, e tanti capelli ricci, eredità di una terra lontana. Guarda l’obbiettivo della macchina fotografica con fare interrogativo e deciso. È curiosa perché è una bambina.
La madre le ha dato due nomi importanti: Marilena, che le ricordava i fasti dell’impero austroungarico e l’Europa, e Umuhoza, il nome più dolce, che in kinyarwanda (la lingua parlata in Rwanda, ndr) significa «consolatrice».
La sua storia ebbe inizio quando il padre, quarto di sette figli, da missionario in Africa divenne il suo papà, innamorandosi di una ragazza, nata in un piccolo villaggio del Rwanda, sopravvissuta a tre genocidi e che all’età di cinque anni venne catturata insieme a tanti altri bambini dai coloni belgi per condurre esperimenti scientifici e azzopparli a vita.
I suoi genitori si sposarono a Kigali e tornarono in Italia, senza soldi e con il giudizio dell’opinione pubblica a ferire i loro sguardi. Marilena Umuhoza Delli oggi è una scrittrice, fotografa e documentarista italo-ruandese, appassionata di Africa e di musica di strada. Afro-italiana.

Nata nell’Italia degli Anni ’80, qualcuno ha provato a mettere in dubbio la sua identità, spostandola un po’ più in là. Troppo nera per essere italiana. Ma lei, con franchezza e spietata ironia mette a tacere ogni dubbio: «Sono italiana al 100%. Nata, cresciuta e insultata qui». Tanti tasselli, tanti pezzi di vita che, messi uno accanto all’altro, compongono la storia di una giovane adolescente concentrata a lavare via quel poco di ebano dalla sua pelle, ad lisciare i propri capelli per confermare la sua italianità, a studiare il doppio per essere come gli altri bambini. E poi, da ragazza a metà, la consapevolezza e la gioia di essere figlia di due mondi.
Testimone coraggiosa e divertita di tanti episodi di discriminazione, Marilena ha raccolto in un libro, edito da Aracne, il racconto di una vita di confine: Razzismo all’italiana! Cronache di una spia mezzosangue.

DOMANDA: Marilena, che significato ha avuto per lei nascere in bilico tra due mondi, l’Africa e l’Europa?
RISPOSTA: Entrambe sono parte di me, così come lo sono il Rwanda, la terra di mia madre, e l’Italia, quella di mio padre e luogo in cui sono nata. Universi completamente opposti che, quotidianamente, compenetrano nella mia vita e nella mia cultura, grazie alla preziosa eredità dei miei genitori.
D: Oggi come si bilanciano?
R: Alla perfezione, ma un tempo è stato molto complicato per me unirli armonicamente.
D: In che cosa si sentiva diversa dai suoi coetanei?
R: Negli Anni ’80 e ’90 ero l’unica bambina di origini straniere all’asilo, alle elementari, alle medie e alle superiori. I miei coetanei si sono mostrati a volte gentili, a volte ostili. Sono stati loro a mettere in dubbio la mia identità.
D: In che modo?
R: Per loro ero la «negretta», nonostante tutto mi unisse a loro: il Paese di nascita con tutte le sue tradizioni, il suo dialetto, la sua cultura. L’unica cosa che ci separava era il colore della mia pelle. Un colore che separava o univa, a seconda dell’educazione e dell’intelligenza delle persone intorno a me.
D: Quando ha preso coscienza del colore della sua pelle?
R: Il primo giorno di scuola, i miei compagni mi regalarono l’elegante appellativo di «negretta», appunto. Prima di allora non avevo un concetto di colore della pelle e credo m’identificassi automaticamente con quello delle persone che mi circondavano: quando ero con mamma ero nera, quando ero con papà ero bianca.
D: Ha mai desiderato essere nata bianca?
R: Il desiderio di «cancellarmi» per avvicinarmi all’ambiente in cui vivevo è maturato con gli insulti e l’intolleranza nei confronti della mia famiglia. Ci è voluto molto tempo prima di accettare il mio colore e le mie origini africane, di cui oggi vado fortemente fiera.
D: Ha mai espresso il desiderio di lasciare l’Italia per trasferirsi in Rwanda?
R: Mai. Sono italiana e non c’è altro posto in cui vorrei vivere. Nonostante le mie radici ruandesi, non mi riconosco appieno nella terra di mia madre. Adoro il Rwanda e vado orgogliosa delle mie origini africane, ma non c’è nessun altro posto a cui sento di appartenere più che all’Italia. Specie dopo i miei anni di studio trascorsi all’estero. Se qualcuno mi dice «che noia l’Italia, vorrei andarmene», io ribatto: «Non sai quello che dici. Non c’è Paese migliore al mondo».
D: Il suo libro si intitola: Razzismo all’italiana! Cronache di una spia mezzosangue. Perché si sente proprio una spia?
R: Sono nata negli Anni ’80 in un’Italia in cui essere nera era un’eccezione. La gente mi diceva cose come «Come parli bene l’italiano!», «Sei adottata?», «Vieni dal Brasile?», senza sapere che non solo parlavo l’italiano ed ero italiana come loro, ma sfoggiavo alla grande il dialetto dei loro nonni. Per questo mi sentivo una sorta di spia, irriconoscibile ai miei compaesani per via del mio aspetto (pelle nera, capelli riccioli, tratti esotici).
D: Lei scrive di sentirsi italiana perché «nata, cresciuta e insultata in Italia». Cosa l’ha fatta soffrire di più?
R: Forse più che gli insulti, l’indifferenza di chi era testimone di queste ingiustizie senza muovere un dito: compagni, insegnanti, colleghi.
D: Cosa porta con sé dell’Italia e cosa del Rwanda?
R: Oltre che nei miei tratti fisici, l’Italia è in ogni sorso di caffè, ogni forchettata di pasta, ogni pensiero che compongo, ogni canzone che serbo nel cuore. In ogni amico caro, ogni libro che mi ha accompagnata fin dall’infanzia, ogni modo di vedere la vita e viverla. Il Rwanda è in ogni poppata, in ogni ricordo multiculturale che ho. Nelle colline che porto nel cuore e nei baci caldi di mia mamma. Nei valori dell’accoglienza e della determinazione feroce.
D: Nel libro racconta di essersi sentita spesso ai margini, soprattutto nei periodi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma aggiunge: «Ai margini scoprii di starci bene». In che senso?
R: Ai margini ci trovi un sacco di persone incomprese, spesso insensatamente, perché non corrispondono ai canoni sociali del momento. Gay, artisti, prostitute, stranieri. Alcuni di questi emarginati sono miei carissimi amici e a loro devo la mia apertura, la mia cultura, la mia voglia di vivere. Ma soprattutto ho imparato a sdrammatizzare certe situazioni gravi, imparando ad apprezzare ciò che avevo, potenziandolo al massimo.
D: Ha perdonato chi l’ha emarginata?
R: Non è una questione di perdono. Compatisco chi non ha intelligenza sufficiente per comprendere i danni di un atteggiamento intollerante, a livello personale e sociale.
D: Suo padre è un ex sacerdote: si è mai sentita giudicata per questo?
R: Mai. Mio padre ne parlava sempre apertamente e la gente lo amava anche per questo.
D: Cosa ammira di più nei suoi genitori?
R: La voglia di vivere, la perseveranza, la forza di andare avanti nonostante le sfide quotidiane, a partire dalle condizioni di vita tutt’altro che agiate.
D: Pensa di avere ereditato lo stesso coraggio?
R: Non sono che un granello di sabbia a confronto: mia mamma è sopravvissuta a tre genocidi e mio papà alla Seconda Guerra mondiale. Non ci sono dubbi.
D: Cosa significa sentirsi «nero dentro»?
R: Questa domanda mi fa sorridere. Ci ho dedicato un intero capitolo. Si può essere neri dentro e bianchi fuori, neri sia dentro che fuori o ancora neri fuori e bianchi dentro. Io sono passata per tutte e tre queste fasi. Il nero dentro è un concetto relativo.
D: Ha dedicato il suo libro a tutti gli immigrati: «A quelli che sono affogati per difendere un sogno, a quelli che sono approdati piantandone le radici». Chi sono, per lei, questi migranti che affogano per difendere una speranza?
R: Innanzitutto esseri umani. Persone con progetti, speranze, e problemi così pesanti da spingerli a lasciare la propria terra.
D: Sente un legame con loro?
R: Come potrei non sentirlo, con una mamma che, proprio come loro, ha lasciato il suo Rwanda per piantare un sogno in un Paese a lei straniero? Oggi i migranti sono loro, domani potremmo essere noi. Come non identificarsi in queste persone?
D: Il fatto di essere nata in Italia l’ha mai fatta sentire una privilegiata?
R: Da quando viaggio in Africa e in altri Paesi del Terzo Mondo mi sento terribilmente privilegiata. Il contrasto Nord-Sud del Mondo è imbarazzante. Per questo ho cercato di connettere queste due realtà attraverso la fotografia e la regia, che mi hanno portata a lavorare con artisti di strada da Paesi svantaggiati.
D: Lei è regista, documentarista e produttrice musicale di artisti di strada provenienti da Paesi in via di sviluppo: che cosa la spinge a voler raccontare le vite degli altri, soprattutto degli ultimi?
R: La vita dei miei genitori mi ha avvicinata molto all’Africa. Noi stessi abbiamo sfidato povertà ed emarginazione, crescendo in zone degradate, lottando con i soldi, accettando la carità della gente. Noi abbiamo ricevuto aiuto. Quindi mi sono chiesta: perché oggi, quell’aiuto, non posso darlo io? È un modo per ringraziare la vita di ciò che mi ha donato, oltre che un’opportunità per conoscere artisti di strada che normalmente non hanno voce e che meritano di essere ascoltati.
D: Quindi avete contribuito a scoprire talenti nascosti?
R: È così che abbiamo lanciato i Malawi Mouse Boys, venditori di topi con cui abbiamo prodotto tre album e di cui organizziamo tournée in tutto il mondo. O i carcerati di Zomba Prison Project (Malawi), che abbiamo portato ai Grammy’s di quest’anno con l’album «I have no everything here».
D: Quale è stato il suo primo pensiero quando vide il Rwanda per la prima volta?
R: Che era bellissimo. E che non capivo nulla di quello che la gente diceva. Mamma mi ripeteva: «Parla no? Dai che lo sai!». Ma come facevo a parlare il kynierwanda, se non me l’aveva mai insegnato?!
D: Cos’ha provato quando l’hanno chiamata «azungo» in Malawi e «kuku» in Rwanda (entrambe le parole significano «bianca», ndr)?
R: Una forte delusione. Ero denigrata in Italia e sbiancata in Rwanda, il Paese dove credevo di trovare tutte le risposte ai miei quesiti sull’identità. Ero disorientata. Dove appartenevo? All’Italia o al Rwanda? Ci è voluto molto tempo prima di trovare quella risposta.
D: Il colore della pelle condiziona la vita e il futuro di una persona, secondo lei?
R: Dipende tutto dal carico di pregiudizi che la gente vi attribuisce. In questo senso, il ruolo della famiglia e degli educatori è cruciale per infondere sicurezza alla persona discriminata. Anche il governo ha un ruolo importante in questo. Il colore non definisce l’essenza di una persona. Chi giudica in base a esso è solo un ignorante. L’intolleranza emargina e l’emarginazione produce individui fragili e insicuri, parola della sottoscritta.
D: È difficile essere una afro-italiana?
R: Per me è un arricchimento, un punto di forza. Vi invito a visitare il mio blog www.afroitalian.it.
D: Lei ha due nomi. Nella vita è stata più Marilena o più Umuhoza?
R: Oggi posso dire con certezza che sono entrambe, ma da quando è uscito il libro e ha riscontrato così tanto successo forse mi sento più Umuhoza (nome col quale ho firmato il libro).
D: Cosa deve all’Africa e cosa all’Italia?
R: Devo tutto ciò che sono oggi. Entrambe le parti vivono in maniera compenetrante e sono indissolubili. Leggere per credere.

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