Fernanda Caprilli
Narrativa come realtà e sogno

Al suo esordio letterario, con questa serie di racconti intitolati Quadri di Donne di Quadri, Cinzia Della Ciana si presenta con una sua inconfondibile voce, caratterizzata da un periodare fluido e scorrevole e da un ritmo decisamente musicale che la porta, spesso, ad alternare pagine realistiche a pagine di autentica poesia. Una vocazione, la sua, che parte dall’amore e dalla pratica della musica e di essa fa tesoro nel momento in cui si fa forte l’urgenza della scrittura.
I singoli racconti sono infatti “quadri”- di qui il titolo del libro- cioè composizioni che possono essere guardate singolarmente, soffermandosi ora sull’una, ora sull’altra, e che, nel loro insieme, compongono una “galleria”. Ma, anche per il racconto, come per il quadro, quello che gioca un ruolo fondamentale è il punto di vista dell’osservatore o del lettore; cioè è il rapporto che s’instaura, che rende piacevole l’osservazione o la lettura. In questo caso il punto che unisce i singoli racconti è dato dalla scelta delle protagoniste che sono tutte donne, donne vicine o lontane nel tempo, colte nell’intimità di una riflessione sulla vita e sul mondo che rappresenta, in sostanza, il punto di vista dell’autrice sulle loro vicende. La scrittrice, la cui voce non si confonde mai con quella delle protagoniste, ci dice, tuttavia, quale sia stato il suo percorso di crescita e di maturazione attraverso una riflessione sulle varie vicende che viene narrando.
Nel Vestibolo (Ovvero istruzioni per l’uso), Cinzia Della Ciana fa parlare le donne protagoniste dei racconti; donne - afferma - “prese in prestito da un’altra donna” che, a “mezzogiorno” della sua vita, ha pensato di mettersi a scrivere, ovvero ad usare le parole al posto dell’amato strumento musicale, il pianoforte, coltivato per tanti anni e poi abbandonato. E, dando loro voce, ci conduce all’interno del libro, evidenziando le scelte di poetica che l’hanno portata in questa direzione. Consapevole del fatto che “scrivere resta un mistero”, ma anche che “nessuno scrive unicamente per sé”, la scrittrice afferma: “Quel che a noi interessa non è il prima o il dopo, la storia è solo un pretesto per immortalare la frazione, l’istante, l’unicità del fermo immagine, che, denso di dettagli e sfumature, ti faccia arrestare e riflettere, si faccia leggere e, magari, rileggere, per trasportare l’anima nel cervello e poi oltre la siepe [come una musica, come una poesia, - dice]. Per superare la limitatezza terrena che non consente, invece, di vivere mai due volte lo stesso momento”. Proprio quest’ansia d’infinito porta la scrittrice a cogliere l’attimo, il momento in cui la vita ci pone davanti ad un bivio, obbligandoci a scegliere, perché solo dalle scelte consapevoli può scaturire un vero processo di maturazione. In queste donne, nei loro interrogativi, nei loro sogni o nei loro ricordi, c’è un aspetto dell’anima femminile che la scrittrice mette a nudo ricordandoci che “la donna è enigma e metamorfosi, dà la vita e indovina la vita”.
Per analizzare alcuni di questi temi vorrei partire dall’esame delle due favole contenute nel volume, che illustrano, allegoricamente, il senso della nostra vita nell’universo e quello del nostro rapporto con gli altri e col mondo. ‘La favola bella’ è, a mio avviso, un testo poetico: “Era il tempo della luna rossa, la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera. / Quando la notte è limpida ma ancora fredda e i germogli appassiti dal gelo diventano brunastri. / Quando la luna cade nell’ombra della terra e, per una strana magia, gli unici raggi di sole che filtrano attraverso l’atmosfera riflettono luce rossa, vincendo sul colore blu. / Quando la luna è così grande, bassa e vicina alla terra che sembra che la tocchi …” Zaphira, la ninfa che abita la grotta da cui fuoriescono limpide e salutari acque, in quella notte di luna rossa vede arrivare alla sorgente un cavallo color argento, di nome Sirio, che ha un solo desiderio: quello di allontanarsi dal branco e spingersi sulla montagna così in alto da spiccare il volo senza ali. Zaphira, che rappresenta il principio di realtà, gli ricorda che lui non è fatto per volare nell’aria, bensì per correre sulla terra e che “il confine di ogni mondo va rispettato”. Poi lo invita a fermarsi la notte alla sua fonte, promettendogli che non dirà parole, ma suonerà “solo musica d’acqua”. “Sarà la luna a parlare per me - dice - […]. Capirai che nulla va perduto e scoprirai che tutto è un divenire. Ci sarà una vita in cui sarai falco e ti librerai solo nel cielo, ci sarà un’altra in cui sarai pesce e nuoterai nel torrente guizzando, ma ora sei cavallo, devi correre nei grandi spazi verdi e tornare a vivere nel branco. Questa è la tua natura e, per quanto tu ti ribelli, non puoi cambiarla, faresti solo pasticci”, dice Zaphira. Solo alla fine, Sirio accetterà la lezione di vita e di amore che gli viene dalla ninfa e la favola si chiude con una frase epigrammatica: “E fu di nuovo vita”.
Emergono ne ‘La favola bella’ temi ricorrenti in altri racconti, primo fra tutti quello dell’accettazione di sé, che è fondamentale per la nostra relazione col mondo, e quello del perpetuo divenire di tutte le cose, dell’eterna metamorfosi cui sono sottoposti tutti gli esseri viventi. Sono questi, per esempio, i temi sviluppati anche nel racconto intitolato ‘Erano i tempi della spagnola’. La piccola Ambra vede morire la madre, colpita dalla terribile pandemia che falcidiò l’Europa alla fine della Prima Guerra Mondiale. Abbandonata a sé stessa, pian piano la bambina smette di parlare, senza che nessuno si preoccupi di capirne il motivo. Sarà Flavio, il giovane amico incontrato al laghetto dove si reca ogni giorno, che, raccontandole la straordinaria storia della libellula che da larva si trasforma nel meraviglioso insetto che vola alto nel cielo, a dare alla piccola Ambra la chiave per riconoscere se stessa e immergersi nel divenire: “Flavio concludeva sempre sottolineando che le libellule, quando sono larve, non conoscono il loro destino, perché la larva che sale e poi si trasforma, una volta mutata, non può tornare, così cambiata, dalle compagne larve dentro l’acqua, che tanto non la riconoscerebbero. La libellula, per ritrovare le sue compagne larve, deve aspettare che queste la raggiungano in cielo, deve attendere che anch’esse si mutino in libellula”. Quando Flavio capisce qual è il problema della sua giovane amica, decide di andare lui da lei, di entrare nel suo mondo, e tace, tace per giorni, fintanto che Ambra torna a parlare. Anche in questo caso, come si vede, l’accettazione di sé passa attraverso una metamorfosi simbolica che dalla larva - Ambra, una volta privata della madre, non ha chiaro il senso della sua vita - la porta ad essere libellula, ad accettare cioè il suo rapporto con l’altro, tornando così a parlare e a vivere.
La seconda favola che vorrei analizzare è intitolata ‘L’aquila e il pulcino’, e anch’essa s’inserisce in questi due grandi temi di fondo che abbiamo individuato. L’incontro fra un’aquila e un pulcino di gabbiano - cosa che può accadere solo in una favola! - avviene su una roccia che domina il mare, dove una gabbianella, che ha appena dato alla luce un pulcino, osserva divertita e perplessa quella “creaturina indomabilmente curiosa che, senza ali, giocava a fare l’acrobata, sospesa tra il vuoto e la roccia”. L’aquila, capitata per caso da quelle parti, entra in simbiosi con il pulcino e gli confida di essersi fermata lì per compiere il suo viaggio di rinnovamento, quella muta del piumaggio, del becco e degli artigli che ogni aquila compie a quarant’anni e che potrà consentirle di vivere fino a settanta. Finita la muta, però, l’aquila non si decide a riprendere il suo viaggio, e a quel punto il pulcino capisce che, se vuole aiutarla, l’unico modo che ha è quello di “ riprendersi il corpo di gabbiano”. Alla vista della gabbianella, l’aquila rimane turbata e non è sicura di voler volare con “una compagna così impegnativa” e volentieri sarebbe rimasta ancora un po’ ferma … “Il pulcino, però era cresciuto e vedeva, sentiva chiaramente, che anche l’aquila non era più quella di prima, era maturata, solo che doveva riconoscerlo e, per accorgersene, doveva lasciarsi andare. Era solo questione di fiducia. Dare fiducia a sé, dare fiducia all’altro, affidarsi reciprocamente. Quella era la vera e sublime simbiosi. / Il cielo che li aspettava era grande”. La bellissima sintesi espressa in queste parole, come in tutte la favole, ci offre una morale, sottolineando come, anche nella diversità e nella tipicità che caratterizza ognuno di noi, sia importante avere, prima di tutto, fiducia in sé stessi per poi dare fiducia all’altro. Questo messaggio di speranza, che nelle favole può compiersi come ideale conclusione di un sogno che, nella realtà, è difficile realizzare, torna, in quasi tutti i racconti, sia che si tratti di storie liete o tristi. Ogni donna di questa “galleria” ci lascia con un’ aspettativa, con la speranza che dal seme nasca il frutto, con la percezione vivida e profondamente vissuta che dall’ “anima antica”, che essa porta con sé, possa nascere il nuovo, cioè che la vita possa continuare, facendo tesoro, ogni volta, dell’amore e del dolore che l’hanno attraversata. Così è per Ginevra, protagonista de ‘La pendola’, la quale, dopo essersi piegata al senso del dovere per non deludere le aspettative che gli altri ripongono in lei, comincia a interrogarsi e a scalfire pian piano la maschera dietro la quale si era nascosta per un’intera vita. Ma quando la scelta si fa dolorosa, di fronte alla malattia che l’ha colpita, capisce che non è “il momento giusto per morire”. Torna verso la vita e sente di essere finalmente libera di scegliere: “Lo faceva per sé - dice la voce narrante - Era ancora curiosa. Voleva proprio vedere come sarebbe andata a finire. Desiderava giocare e stupirsi”.
Anche Cloe, protagonista de ‘L’appeso’, ha alle spalle una storia infelice. Il conflitto fra la carriera universitaria che tenacemente persegue e un amore che, giorno dopo giorno, è diventato abitudinario, non le fa percepire il bisogno di maternità, e solo dopo la morte del bambino, che finalmente è arrivato, e dopo aver perso per sempre la possibilità di averne altri, sente crescere in sé un nuovo e smisurato bisogno di essere donna e madre. La dimensione in cui sprofonda è quella di un lutto perenne, ma l’ombra positiva e rasserenante dell’Appeso ( la carta dei Tarocchi che indica la possibilità di un rovesciamento, di un’inversione di tendenza) la fa incamminare verso la ricerca di una nuova e insperata tranquillità spirituale che la riporterà verso la vita.
L’amore non è un tema dominante di questi racconti, ma compare, a volte, come ombra che mette a fuoco il tema del riconoscimento di sé. Così è, per esempio, in ‘Soul Mates’ (anime gemelle), dove nel sogno che Ester, la protagonista del racconto, narra all’amica Giusy, emerge un’ombra che fa parte della sua infanzia o del suo passato. Proprio questa ricerca di equilibrio anche nel passato è importante per ritrovare il senso della propria identità e riscoprire la grandezza del rapporto di amicizia (l’amore finisce, l’amicizia no). Per questo Ester chiede aiuto all’amica, perché teme di fare “l’equilibrista della vita”, sospesa tra realtà e sogno, tra l’ombra, che si è impadronita delle sue chiavi, della sua casa e della sua anima, e il suo bisogno di riconoscersi per quello che lei veramente è. Non è un caso che il racconto che chiude il libro, ‘Non foglie, ma aghi’, sia centrato proprio sul tema del rapporto femminile/maschile. L’anima femminile, infatti, cerca sempre il suo corrispettivo maschile, ma quando l’uomo è un narciso non sa vedere oltre se stesso. L’invito è a cercarsi con amore e a fuggire, magari piangendo, da chi non conosce l’amore e non sa darlo.Mi avvio a concludere questo breve excursus fra i racconti di Cinzia Della Ciana, prendendo in esame ‘Praesentia’, la vicenda che meglio identifica la storia della donna attraverso il lungo e doloroso cammino che l’ha portata alla conquista di una libertà che solo la cultura e il sapere possono alimentare e far crescere. La storia di Artemisia de’ Canti, arsa viva nella terra di Siena alla fine del ‘400, la “strega”, condannata per aver scritto libri eretici, viene rivissuta da Angelica, la protagonista del racconto, che, salendo sulla sommità della torre di un vecchio rudere abbandonato, come in una visione, assiste al sacrificio di lei: “Artemisia in fiamme dal profondo di quel buio ti guardava, magnetica nel suo splendore. Impossibile abbracciarla. Ti aggrappasti al suo estremo saluto e ne raccogliesti l’anelito”.
Ma quello che, a mio avviso, è l’aspetto più interessante di “Praesentia” è l’inquieto interrogativo che Angelica rivolge a se stessa nella parte finale del racconto e che suona come una dichiarazione di fede nella vita e, insieme, nel valore salvifico della parola: “Ma tu Angelica perché avevi tanto cercato Artemisia? / Perché avevi voluto rispecchiarti nella sua anima? / Riconoscevi, forse, in quelle parole la tua stessa musica, quella musica che volevi ora suonare, scrivendo? Musica d’acqua, acqua di fiume, fiume in piena che avevi deciso di far scorrere senza curarti degli argini, senza domandarti chi e cosa trascinasse, senza voler sapere il mare che lo attendeva. Mare che poteva rifiutarti, rive che già ti avevano abbandonato. / Ala infinita di fantasia e ingegno, gioco di fascino, desiderio e sogno.” Non può sfuggire, qui, la voce dell’autrice che si leva alta in queste parole e il senso di assoluta libertà che essa assegna alla scrittura, nella certezza che l’essersi liberata dagli schemi costrittivi dell’ortodossia e del conformismo rappresenti un passo verso la conquista della propria personale libertà. Accettare il marchio dell’ “eresia” significa, infatti, operare per quel cambiamento che, solo, può garantire la continuità della vita: “Ma la vita non si può fermare – afferma – e ogni nuova vita inizia perché c’è un’eresia che l’alimenta”.
Lontana dall’autobiografismo stereotipo di tanta scrittura contemporanea, specie dal rispecchiamento dell’io proprio di una certa poesia al femminile, la scrittura di Cinzia Della Ciana ha una cifra stilistica molto personale: ora incisiva e concisa nell’affondare al cuore del problema, ora evocativa e melodica, capace di trasportare il lettore sulle ali del sogno e della fantasia. È questa la sua musica più vera, in grado di trasmettere emozioni che il lettore difficilmente riuscirà a dimenticare.

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