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Nel 1769, al giovane conte Vittorio Alfieri aveva dato oltremodo fastidio assistere alla «genuflessioncella d'uso» del Metastasio all'imperatrice Maria Teresa nei giardini di Schönbrunn: gli era parso che quella «Musa appigionata o venduta all'autorità despotica» fosse tutt'altro che degna di amicizia o familiarità, l'antitesi vivente all'idea di una poesia libera e salvifica. Il ritratto fugace dell'artista servilmente lieto e adulatore era davvero impietoso, benché attenuato da una certa dose di autocritica, se, rievocando quell'incontro occasionale, Alfieri parlava di sé come di un ventenne abituato a esagerare «il vero in astratto», «un tutto assai originale e risibile». Certo, fra il celebre e anziano maestro e il viaggiatore inquieto e promettente non vi fu alcuna comunicazione, né i loro mondi ebbero modo di confrontarsi, anche se per poche sere, fra le probabili scintille che un «salvatico pensatore» avrebbe creato al seguito della «fastidiosa brigata di pedanti» viennesi, tra cui spiccava l'ambasciatore del Re di Sardegna, il conte di Canale. Per imperscrutabili vie, strani dinieghi o ansie di identità, qualche volta historia facit saltus. E segna fratture profonde tra un'epoca e l'altra, con il suggello di episodi dalla forte carica simbolica.Con il ricordo sprezzante del grande tragediografo calò il sipario su un'esperienza tra le più significative e complesse della civiltà settecentesca, non solo teatrale e musicale. Metastasio rimase marchiato a fuoco dalla sua qualità di poeta cesareo, intellettuale organico a una corte prestigiosa e a un orizzonte di valori transnazionali, interprete colto e attento - e fedele fin anche nella acuta percezione del crepuscolo - dei fondamenti istituzionali e dei codici di comportamento dell'ancien régime. L'eco dei suoi successi si affievolì lentamente in ogni latitudine d'Europa, ma l'età che si aprì all'indomani delle rivoluzioni tardo-settecentesche provò sempre maggiore insofferenza per una drammaturgia incomprensibile al di fuori del sistema ideologico-politico che l'aveva ispirata, smarrendo progressivamente ogni possibile chiave di lettura, ogni approccio meditato ed equanime. Sopravvisse - a tratti - il piacere di un'elegante facilità dei versi, guardata con un misto di sufficienza e sospetto (anche se tanta librettistica ottocentesca non sdegnò di riproporre immagini e stilemi, ammirata dalla loro perspicuità); gli interventi critici di Carducci e De Sanctis (sua la formula del «comico involontario») non valsero a produrre un'inversione di tendenza duratura, a riaccendere l'interesse per una figura avvertita come fredda, distante, e incapace di parlare ai contemporanei.Occorreva forse l'esaurirsi della lunga stagione romantica perché cominciasse a dissiparsi questa spessa cortina di indifferenza e si tornasse a cogliere il disegno coerentissimo della poesia metastasiana, un dialogo ininterrotto con le tensioni della storia e le questioni del governo e del decoro, degli affetti e dei doveri, dietro l'apparente immutabilità di schemi lucidi. A poco a poco sono riemersi i valori di un "impegno" da decifrare, il prestigio di un "classico" che seppe dominare come pochi le sue scelte stilistiche e le sue convinzioni in funzione di una committenza materiale e immateriale. Di certo, era necessario che all'autore si dedicassero doti esegetiche non comuni, la capacità di padroneggiare gli strumenti dell'analisi letteraria, di ravvisare l'evolversi di una preparazione filosofica che vivifica e orienta il gusto del "dilemma" nelle varie trame disseminate nell'arco di cinquant'anni, l'attenzione alla sapienza con cui l'abile montaggio delle azioni, la scioltezza dei versi, il susseguirsi ragionato di recitativi e arie si misurano con i linguaggi tutti della scena. Rileggere le sue opere è una sfida sempre nuova e - soprattutto - uno sforzo di immersione in un milieu aristocratico scandito da rituali e dilaniato dalla fatica della sopravvivenza di fronte ai tanti pericoli che lo sovrastano, ma da lui ricomposto nella fede in una possibile, superiore armonia.Della renaissance metastasiana nella seconda metà del Novecento Elena Sala Di Felice è stata protagonista indiscussa, non solo per la sagacia e la brillantezza di un percorso di studi complesso ed eclettico, in cui ha dato ampia prova del possesso di tutti quei talenti così particolari che l'impresa richiedeva, ma per la risolutezza del metodo, grazie al quale ha da subito individuato nella deprecata strumentalità di libretti, cantate, oratori (un elemento comunque imbarazzante per l'italianistica d'antan, anche nelle sue forme più illuminate) il punto di forza di un artista ex cathedra attraverso la rete inesauribile delle esecuzioni teatrali. Dopo una felice antologia di opere da lei curata per Rizzoli nel 1965, nel mezzo di una serie di contributi meritori che han provveduto a far luce sull'altezza d'ingegno dell'abate (tra i protagonisti della ricerca Claudio Varese e W

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