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Ho sfidato il potere maschile

Di seguito un’intervista immaginaria a Olimpia, regina di Macedonia, nota per essere la madre di Alessandro Magno. L’intervista è il frutto di un ampio lavoro di studio portato avanti da un gruppo di donne ricercatrici. A curarne la pubblicazione in questo sito è Daniela Degan*. Il senso della ricerca è raccontato in Tracce di mutualità nella storia, altri articoli che hanno preceduto questo sono Ayla, la figlia della terra che visse nell’Europa Preistorica, Le donne di Creta, Superare la «democrazia» greca, La sacerdotessa sumera e Mi ribello con Cassandra, profetessa inascoltata. L’obiettivo delle ricercatrici è mettere insieme interviste immaginarie e indagini tra storia e archeologia al femminile. In questo articolo, Olimpia, spesso denigrata dalla storia, emerge con la sua personalità complessa, con la quale sfidò politici e filosofi del suo tempo (siamo nel IV secolo a.C), assumendo, in un momento storico che sempre di più diventava patriarcale e militare, un ruolo politico.

di Paola Lomi

I gradini di erba compongono la cavea del piccolo teatro, qui sopra il terrapieno che domina il villaggio di Verghina, un tempo Ege: l’antica capitale. Il vento fa stormire le foglie delle querce. Alle mie spalle, in alto, la reggia avìta dei Macedoni, davanti la pianura allora calpestata da zoccoli frementi. Ora solo il silenzio sfiora le antiche pietre.

Ho appena visitato il Grande Tumulo nel cuore di Verghina. Le pupille conservano memoria di monili stupendi: corone scolpite in metallo prezioso a imitare serti di mirto e di fronde di quercia, preziosi letti funebri intagliati nell’oro. Cesellate armature si mostrano superbe, testimoni dell’affetto filiale di Alessandro.

I riti per la morte di Filippo il Macedone hanno ostentato sfarzo e opulenza: dovevano esaltare il valore di quella monarchia che aveva assoggettato l’Ellade intera. Vasellame d’argento, casse in oro massiccio lavorate con grande abilità dagli artisti di Pella, corazze decorate come gioielli: tutto parla di gloria a celebrare l’audacia delle imprese e la fierezza del grande condottiero. Sembra ancora di udire scalpitare i cavalli lanciati nella corsa le grida di battaglia. Discendendo i gradini che conducono verso la terra, i due enormi battenti in pietra bianca si ergono: diaframma fra la vita e il mistero della morte. La porta, metafisica nella sua nudità, sigilla inesorabile il commiato: oltre quella le ceneri del sovrano macedone, egèmone di Grecia.

Il vento ancora agita le fronde degli alberi, solo campi circondano il teatro deserto dove la solitudine ha il colore dell’erba. In quel giorno lontano una torbida ansia di vendetta aveva guidato la mano di Pausania, l’assassino. Filippo era caduto mentre si celebrava l’acme del suo successo. Nobili, ambasciatori, delegati stranieri, insigni personaggi, dignitari calcavano i gradini. La cavea silenziosa allora risuonava di voci concitate, risa, grida, di commenti scherzosi, plauso, elogi. Tutto era predisposto per la gloria dell’ultimo sovrano degli Argeadi, doveva coronare la sua carriera fulgida. Stratega e diplomatico, protettore di artisti, Filippo non soltanto aveva convogliato in un unico esercito le forze militari della Grecia, ma aveva trasformato la sua patria e Pella risplendeva come una nuova Atene.

Ma la tunica bianca all’improvviso si lordava di sangue, il pallore del volto denunciava la resa, nello sguardo restava sospeso lo stupore. E quell’urlo di orrore della folla assiepata sanciva l’epilogo del dramma, come il commento tragico del Coro.

Ora qui tutto è quiete, solo il vento sferza il volto e solleva fili d’erba. L’esile figurina sembra venirmi incontro. La bellezza composta ha qualcosa di magico, irreale; il corpo è drappeggiato in una semplice tunica bianca, i capelli raccolti mettono in evidenza il volto delicato. Il passo elegante, il portamento fiero rivelano il suo rango reale. Mi colpisce lo sguardo: sembra acceso di una passione intensa che nemmeno il dolore può smorzare.

“Sono Olimpia, la madre di Alessandro. Sei donna come me ma appartieni ad una civiltà del futuro. Forse puoi riscattare la mia memoria“. La sua voce è vibrante e pure ferma. “Vedi? – e con la mano indica il teatro – Qui, dove tutto è silenzio, si è consumato il dramma”. Azzardo una prima domanda ….

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Tu amavi Filippo?

“Lui era il mio sposo.Dal nostro primo incontro l’ho amato! Ci siamo conosciuti in una terra strana, l’isola dei Misteri, Samotracia. Lui era solo un principe della casa Macedone che chiedeva di essere iniziato alla dottrina segreta dei Kabiri. Niente allora faceva presagire la sua ascesa. Tuttavia quella forza magnetica che irradiava dalla sua persona, quella stessa energia che lo avrebbe guidato verso tante vittorie, mi aveva affascinato. Dopo la sua partenza, per quanto mettessi ogni cura nell’attendere ai miei compiti quotidiani, non mi fu possibile dimenticare. Quei suoi modi decisi, a volte quasi autoritari, in certi momenti si scioglievano in una tenerezza struggente. La vita del giovane principe era stata contrassegnata da lutti e da assenze. Quando ci incontravamo a Samotracia, nel suo sguardo leggevo una preghiera. Allora avrei voluto essergli di conforto e soddisfare quel bisogno di affetto che rendeva irrequieto il suo sguardo”.

I suoi occhi ardenti sfioravano il mio corpo quasi fossi una Dea. Quando le nostre mani s’incontravano, così bruciante era il desiderio da creare sgomento. E poi la sua partenza e il lungo silenzio, il vuoto dell’attesa. La prima lontananza! Ancora non sapevo che l’assenza avrebbe accompagnato la mia vita. Infine, quando cercavo invano di obliare, giungeva inatteso il messaggero a chiedere ad Aribba la mia mano. Ero come smarrita ed esaltata. La nostra prima notte fu ordita dagli Dei. Avevo appreso molto dentro il Tempio e amavo Filippo e lui mi amava con desiderio trepido, accorato. L’unione dei due corpi trascendeva i confini assegnati ai mortali: quello hieros gamos doveva concepire un essere straordinario, il figlio dell’Oracolo cui avrei dedicato la mia vita”.

La tua esistenza allora era molto felice?

“Molto presto sono rimasta sola. Grazie agli sforzi di Filippo, la Macedonia era sfuggita alle mire di vicini selvaggi e prepotenti come gli Illiri; ma la sua integrità doveva essere costantemente preservata. Non appena il mio sposo fu certo che poteva contare sull’esercito al quale dedicava quasi tutto il suo tempo, la patria gli apparve troppo angusta. Rari erano i giorni che trascorreva a Pella! Credo che il furore della battaglia e la lotta incalzante con la morte fossero la sfida che opponeva al Fato”.

Come trascorreva il tuo tempo nella splendida reggia macedone?

“Nella più desolata solitudine. Pella era abitata da cittadini laboriosi e ferveva di attività; ma gli intrighi a Palazzo si susseguivano l’uno all’altro e gli attacchi al mio nome e alla mia persona erano virulenti. Come sai, Filippo aveva contratto diversi matrimoni con l’intento di stabilire opportune alleanze. Alle spalle di ognuna di queste spose si formava un partito che denigrava gli altri, con ogni mezzo, fomentando i complotti. Io ero molto giovane e indifesa. In quelle stanze adorne di mosaici e di opere d’arte, mi sentivo come una prigioniera, una farfalla che cerca di fuggire ma sbatte le ali contro alte pareti, non riesce a volare! Non avevo una madre né un’amica sincera. Solo il pianto poteva confortare quella vita deserta di affetti. Sapevo di nutrire nel mio ventre il figlio tanto atteso. Per lui, per Alessandro, ho raccolto l’audacia nel mio cuore deluso e amareggiato.

Mi ero preparata con cura e indossavo una semplice tunica ravvivata dai gioielli donati da mio padre. La mia cara ancella, Leucotea, mi aveva lusingato con tenerezza: “Oggi siete molto più bella, mia signora, di quanto vi abbia mai visto da quando siamo a Pella!”. Nel lungo corridoio potevo già udire il vociare confuso: mercanti, contadini, delegati stranieri chiedevano udienza.Prima di varcare la soglia, trattenevo il respiro. Al mio ingresso nella sala del trono, quegli sguardi puntati su di me per poco non mi fecero vacillare. Gli occhi dei generali erano gravi di disprezzo e ironia. Sapevo che Filippo era con me! Sollevai la testa con fierezza. Ero una principessa dei Molossi: nelle mie vene scorreva lo stesso sangue di Achille e Neottolemo!

Da quel giorno, quando il mio sposo era in guerra, io prendevo il suo posto affiancando Antipatro nel dirimere le questioni del regno. Credo che gli oratori delle poleis del sud non abbiano mai perdonato questa mia “invadenza” in un campo maschile. E nemmeno i filosofi! Il giudizio di Aristotele restava inesorabile: per una donna era sconveniente mettere in mostra qualità e talenti personali. Figurarsi poi detenere un potere politico! Ma la gente mi amava. Sapevo corrispondere alle richieste con accortezza e intuito femminile. La mia figura inoltre era elegante, la mia conversazione garbata e intelligente, quando durante i conviti importanti, sedevo a fianco di Filippo, in mezzo a delegati stranieri.

Nondimeno le voci diffuse ad arte mi definivano: la strega che è venuta dall’Epiro, terra di maghi. Spesso mi attribuivano efferati delitti. Soprattutto gli uomini non tolleravano l’ingerenza di una “sposa straniera”. Anche gli ambasciatori delle poleis schernivano la mia partecipazione alle cerimonie ufficiali: il posto di una donna è dentro il gineceo, fra i pesi del telaio! I rudi generali disprezzavano la mia persona deprecando i favori che Filippo mi concedeva. In ogni occasione denunciavano la mia estraneità alla Macedonia”.

Non potevi difenderti?

“Le chiacchiere correvano nei mercati di Pella e i profittatori facevano di tutto per denigrarmi e avere benefici dai potenti che fomentavano quelle critiche. Mi hanno perfino accusata di cospirare contro la patria del mio sposo. Come avrei potuto? La Macedonia era ormai la mia terra. Sarebbe stata quella dei miei figli. Se artigiani e artisti producevano mosaici stupendi e Pella si arricchiva di opere d’arte, il merito era anche della mia infaticabile attività, dei consigli avveduti suggeriti a Filippo. In varie circostanze l’ho esortato a prendere delle decisioni che si sono rivelate vincenti. L’educazione ricevuta, prima per volere di mio padre nella reggia dei Molossi, più tardi a Dodona, aveva reso più duttile il mio ingegno,più sottile l’intuito.Inoltre non ho mai risparmiato le mie forze. Quante volte ho celato la stanchezza dietro un sorriso! La gravidanza appesantiva il mio corpo e le sedute nella sala del trono erano interminabili in certi giorni. La mia schiena doleva e tutto il mio essere invocava Filippo. Ma lui era lontano, spesso non ne avevo notizie, se non quelle ufficiali. Trepidavo per lui, per la sua vita. Poi è nato Alessandro. Lui è stato la ragione della mia vita! Per questo mio figlio sono stata formata dentro il Tempio”.

Molti non conoscono questo aspetto della tua vita. Vorresti parlarne a noi, donne di oggi?

“Certo! Ciò mi rende orgogliosa: io sono stata e sono sacerdotessa di Dioniso. Anche contro le Menadi la storia è stata impietosa: una storia scritta da uomini che non erano in grado di comprendere. Un corpo femminile può facilmente abbandonarsi alla possessione del Dio, è disposto a dischiudersi come corolla. Il figlio di Semele può discendere dagli spazi celesti per colmare di divina Sapienza le sue seguaci. E nell’unione mistica ogni sacerdotessa diviene solo un tramite fra l’essenza divina e la comunità. Quell’estasi è foriera di conoscenza. Gli anni di formazione dentro il Tempio sono assolutamente indispensabili per poter accogliere la presenza del Dio. L’energia di Dioniso è potente: potrebbe essere fatale ad una fanciulla impreparata. Digiuni, preghiere, insegnamenti e studio forgiano la persona di una sacerdotessa fin che la Notte Sacra la conduce, come novella Arianna, alle nozze col Dio.

I battiti ossessivi dei tamburi, il profumo inebriante dell’incenso, la melodia dei canti rituali e delle invocazioni inducono le Menadi a volgere la testa e ondeggiare . Il movimento lento e avvolgente produce spirali di energia che si dipanano per avvolgersi ancora. Il ritmo a poco a poco diventa concitato e fremente; i piccoli serpenti escono dalle ceste e le donne li avvolgono intorno alle braccia, li accolgono fra i seni. Si desta nelle membra un’eccitazione sensuale che richiede pienezza e richiama il furore pulsante di Dioniso quale fonte di vita. I corpi delle Menadi sono soltanto involucri per la potenza della sua possessione e, quando il Dio ridesta la forza vitale addormentata nella radice, ciascuna di loro può risvegliare lo slancio primordiale della vita e propagarlo intorno. Credo che gli uomini di allora non fossero in grado di comprendere.

Durante i riti sacri le Menadi sfuggivano ad ogni imposizione. Lontane dai telai e dalle occupazioni quotidiane, le guance e gli occhi accesi, il seno vibrante, scoprivano l’essenza della loro integrità. Potevano diffondere la conoscenza. Ma gli uomini temevano quello stato di ebbrezza: come potevano soggiogare le loro spose se queste si sentivano padrone della loro anima? Non solo nell’Epiro e a Samotracia ma anche a Pella, ho istruito le donne e ho guidato i tiasi di Dioniso nonostante l’aperto disaccordo di alcuni generali. Ho nutrito Alessandro di quella Sapienza. Per i primi dieci anni della sua vita la sua mente e il suo cuore mi appartenevano.

Sicuramente sai che anche il nostro rapporto è stato oggetto di aspre critiche. Quale madre non cerca d’insegnare ciò che lei ha appreso e ritiene essenziale? Il profondo legame che mi univa a mio figlio è stato interpretato come bisogno di possesso e vilipeso. Era una unione di anime! Ma molti non potevano comprendere. Quando in questo teatro si consumò il dramma che mi avrebbe sottratto, per sempre, l’uomo che amavo, si disse che ero complice dell’assassino!

Era un tempo di orrori e violenza. Le ripetute assenze di Filippo facevano ormai parte della mia vita e avevo accettato la solitudine come compagna dei miei giorni. Non ero ancora pronta per quella devastante voragine che la morte avrebbe aperto nel mio cuore. Dopo solo due anni Alessandro partiva per conquistare l’Asia. I suoi lunghi capelli gettati indietro nel suo abituale gesto spavaldo e lo sguardo un po’ ironico nel salutarmi: questa l’ultima immagine! Non avrei più rivisto il volto amato, gli Dei non mi concessero nemmeno di comporre il suo corpo nel feretro.

La bianca signora della morte è stata implacabile: mio padre, ancora giovane, fu ucciso dagli Illiri, Filippo da Pausania e Alessandro forse dagli Dei. La mia condanna è stata sopravvivere! Avrei potuto trascorrere questi miei ultimi anni tra i fiumi e le montagne dell’Epiro, che avevano visto le mie intemperanze di bambina, le corse, la scoperta del mondo e gli anni di Dodona al Santuario. Forse quell’aria tersa, quelle acque scintillanti avrebbero guarito il mio dolore. Ma c’era ancora il figlio di Alessandro e la madre, Roxane. Mi illudevo di poter lottare per loro. Era un tempo di lotte feroci e di contrasti per l’eredità; il diritto allora si definiva soltanto con la forza delle armi. Ero una donna sola e dovevo affidarmi a un generale. Ho sbagliato! O forse invece tutto era stato deciso e la gloriosa stirpe degli Argeadi, dopo tante vittorie, doveva estinguersi.

Non temevo la morte. Anzi anelavo da tempo ad incontrare finalmente il mio sposo, come quando lo avevo conosciuto a Samotracia: un giovane principe dallo sguardo magnetico e intrigante. E dopo quella lunga lontananza, a volte insostenibile, avrei visto Alessandro! Avrei riconosciuto quell’espressione complice che aveva da bambino quando doveva farsi perdonare. Soffrivo atrocemente nel lasciare familiari indifesi in Macedonia: un ragazzo e sua madre, una donna straniera come me. Nel momento dell’addio a loro, alla mia terra, alla mia vita, Dioniso mi ha accolto in una luce fervida, accecante, che fugava ogni ombra, come quando, sulle montagne che circondano Pella, guidavo i tiasi delle donne in una smemorante felicità.

Se puoi, disperdi le calunnie che hanno infangato la mia memoria, restituisci alla mia storia la dignità che merita . Mio padre, Neottolemo, era fiero di me. “La nostra dinastia – mi diceva – discende dall’unione del figlio di Achille con Andromaca. Devi esserne orgogliosa e non tradire mai le tue origini!”. Glielo avevo promesso. In tutta la mia vita sono stata fedele a quell’antico voto”.

Il vento agita solo i miei capelli soffiando fra le querce. I suoi sono ordinati a illeggiadrire un volto di un’ intensa bellezza. Mi guarda come ad essere certa di potere affidare la sua storia a noi, donne di oggi e mi sorride. La vedo allontanarsi: un’esile figura che ha l’incedere lento di una regina.

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