
Recensione
La poesia-spettacolo di Faraòn Meteosès
Parafrasando Benjamin possiamo affermare che il discorso poetico di Faraòn Meteosès è simile ad un labirinto: giungi ad un incrocio da una via diversa da quella solita e non lo riconosci, non ti raccapezzi, non riesci a distinguere quell'incrocio da altri similari. Ecco, il discorso poetico di Faraòn Meteosès parte da un attante (astratto), dalle fotografie poste a latere del testo di Fabrizio Buratta, e di lì procede per divagazione e/o sviluppo stringente dell'argomentazione, dall'incipit in un moto, direi, inerziale, ellittico, eccentrico, zigzagante, de-concentrico, borderline, ma sempre tattile-empirico. Di fatto, la poesia spettacolo di Faraòn Meteosès nega lo spettacolo nell'attimo stesso dell'esecuzione. Più che poesia-spettacolo è una poesia da avanspettacolo: variano gli attori e gli attanti ma non varia l'enunciato-spettacolo del verso. La sua permanenza (del verso-spettacolo) è garanzia della impermanenza della poesia-apparenza qual è divenuta la poesia-spettacolo. Possiamo dire senza remora che come l'enunciato-spettacolo abita il palcoscenico, la parola poetica abita il foglio bianco di una presenza acefala e de-corticata dove il monstrum (non più visibile) che si appalesa non è né pubblico né privato, non è più il male di vivere né mai sarà un esistenziarsi più o meno destinale di chi non ha più da tempo immemorabile un destino tout court; il viaggio antifrastico del poeta romano si dipana in un metalinguaggio che traduce il linguaggio figurativo delle 32 immagini di Fabrizio Buratta in altrettante istantanee che l'autore chiama «fermate». Figurativismi parolieri o presentificazioni parolate oserei definire questa versificazione che si presenta come un continuum di assenza che rivela, per contrasto, la presenza di un «io» de-nucleato, de-realizzato, de- psicologizzato («le pinne si smaltano le squame di esfoliano / la chioma si spettina ossigenata nell'acqua / nel nostro plancton plissettati plurivocizzati...»), che oscilla tra iperrealismo e ipernichilismo e transita oltre, che recalcitra e scalpita tra sintagmi asseverativi e didascalici, impulsivi e riflessivi, tra discariche urbane e discariche letterarie dove il logos èdiventato «logo» e il luogo «trasloco», lontano dal «mare amniotico / dove vissi felice come un embrione».In questo transito dal crudo al cotto, dal caldo «embrione» all'algido della società dello spettacolo, in questo iter di de-costruzione (linguistica e stilistica) il poeta romano porta alle estreme conseguenze delle sue possibilità espressive uno stile non-stile da reportage e da referto psichiatrico, abbondantemente attingendo (come colonna insonora) alla lezione del fumetto e alle didascalie-inserto delle riviste massmediatiche più patinate, al frammento e al momento (di indignazione e di inazione) del soggetto colto nella sua immobilità posturale. Abbiamo allora «Il dolce cammino» quale capovolgimento ironico e iconico del poemetto da viaggio turistico, un poemetto anti-poematico, tessera inservibile, memento di un universo reificato, servile e asservito alla autorità dell'immagine e dell'immaginario mediatico. «È l'occhio che mi guida nella scrittura» afferma Faraòn Meteosès richiamando, come per ipnosi, l'eredità (mancata) delle antiche avanguardie del novecento, ormai derubricate e disossate dalla psicosi-psoriasi del Moderno. Ciò che corrobora la nostra impressione secondo la quale gran parte della migliore poesia contemporanea non è altro che una proiezione linguistica dell'occhio che osserva. Ecco spiegata la ragione «ottica» delle metafore e la tessitura dei proposizionalismi poetici.stavamo dicendo nella nostra forma epistolare che al proiettile della pistola deve essere apposto il congegno per cui la pallottola entrando nel cranio debba esplodere con enorme potenza.Essa si chiama proietto contro l'ipocrisia da agitare prima dell'uso, leggendo le avvertenze del caso. È un prodotto inconsueto che non è alla portata di tutti!...