In limine
Epifanie artistiche del corpo malato

Quale misterioso rapporto si instaura tra la natura transeunte, imperfetta, “malata” dell’esistenza umana e il sublime dell’arte, sprigionato, comunque la si voglia intendere, da una energia sovrastante, quanto capricciosa nel ripresentarsi a suo piacimento?
Lo ritengo uno degli interrogativi più affascinanti del nostro vivere, la corda, per dirla con Ungaretti, tesa tra l’effimero e l’eterno, tra la fisicità e spiritualità “incontaminata”, tra fango della materia e capacità del pensiero di toccare le sfere celesti con l’immaginazione.
Tra gli svariati esempi di come la letteratura abbia recepito questi aspetti, ricordo particolarmente per mie ricerche del recente passato emblematiche figure di medici in Carlo Emilio Gadda e in Guido Morselli, capaci di sintetizzare, con caratteri assai diversi, questa dialettica: uomini in definitiva comuni (a volte anche “sporchi”, seguendo una pertinente immagine gaddiana), investiti, nella loro arte, al momento di “operare” sul male (come nel finale della Cognizione del dolore) di una luce di pietas giunta da lontano, a dispetto di un’alba gelida e dell’atmosfera di morte circostante.
Mi piace, inoltre, segnalare l’opera di uno dei drammaturghi più in vista a livello europeo del nostro teatro, Giuseppe Manfridi che, in diverse opere dedicate a protagonisti della cultura del passato, si interroga sulla relazione profonda e toccante tra il corpo malato, sconciato e la grandezza misteriosa dell’arte che l’attraversa, magari in attesa di un’epifania, anche fisica. Una luce straziata, quella stessa di Gadda, sorpresa nel letto di morte di Leopardi in Giacomo, il prepotente di Puccini in L’osso d’oca. Gli ultimi giorni di Puccini a Bruxellesin Dostoevskij in Anja e nello strepitoso monologo, tra comicità e sublimità, Il fazzoletto di Dostoevskij.
Graditissima sorpresa, dunque, per affinità di tematiche nell’arte gemella della pittura, la recente pubblicazione dell’affascinante testo di Giovanni Ceccarelli, Medici, malati e farmaci nella storia dell’arte, prefazione diJolanda Nigro Covre, Aracne, 2013, capace di coniugare una salda dottrina scientifica (l’autore è un illustre medico pediatra, libero docente, consulente di casa farmaceutiche, appassionato d’arte che con un drappello non esiguo di devoti attraversa i beni culturali di Roma e dell’Italia tutta) a un autentico stupore per la bellezza “incarnata” nella materialità delle tavolozze, dei marmi, dei colori.
Si tratta di un vero e proprio racconto, intenso, trascinante, costruito in XXI capitoli dove si esplorano le esperienze figurative derivate da malattie o da gruppi di malattie diverse nelle loro influenze dirette o indirette nella storia dell’arte universale e di ogni tempo. Arte e scienza non belligeranti, come avverte nell’introduzione l’autorevole storica dell’arte Jolanda Nigro Covre, docente alla Sapienza di Roma, ma a completarsi vicendevolmente, laddove si tratti di malattie e diagnosi riferibili all’artista, oppure, in altri casi “illustrati” da Ceccarelli, si tratti invece di rappresentazioni di malattie altrui, di solito determinanti a racchiudere un’epoca storica quanto le battaglie o ilsuccedersi dei re.
L’occasione è duplice per il lettore,specialista o meno nelle due arti:sapere di più delle malattie del presente e del passato (quanta storia e letteratura intorno al vaiolo, alla gotta, alla malaria, al gozzo e via dicendo) e ammirare come tali deformazioni abbiano trovato un respiro per lo meno duraturo, oltre la morte del singolo autore, nella storia dell’arte.
L’autore sceglie di narrare fatti, mettendo a confronto, quando necessario, diverse teorie mediche, muovendosi sempre su solide basi “scientifiche”, mettendo in evidenza come le incursioni mediche nelle tormentate e sempre stranianti biografie degli artisti permettano, nel dolore, di arrivare ancora più a fondo nelle domande radicalisulsenso della vita.
Un incanto certe pagine, commenta la Nigro Covre, citando uno dei capitoli più avvincenti, dedicato alle cataratte di Monet. Nel caso dello sguardo, del guardare, il nesso scienza arte è imprescindibile e ancora di più nel pittore famoso per concepire il suo mestiere accogliendo l’epifania della luce nelle diverse ore del giorno. L’offuscamento della cataratta rivela una modalità diversa, opaca di osservare, della quale Monet, con accenti drammatici, si rende consapevole, fino alla decisione di operarsi. Vertiginosamente, il libro ci offre una visione chiara dell’avanzamento della tecnica medica, mettendo vicini pittori di età diversa, secondo la malattia sofferta o rappresentata. Le operazioni per Monetsi rivelarono un lungo calvario, puntualmente riportato da Ceccarelli, in quella che oggi è una operazione di routine. Solo nell’ultimo anno di vita riuscì a godere delle sofferenze patite, continuando a dipingere fino alla morte che avvenne nel dicembre del 1926. Prodigioso, nel racconto del libro, come avviene in altri capitoli e in altre malattie, scoprire, alcune volte per ipotesi, altre per dati oggettivi inconfutabili (notevole anche il dialogo con gli altri studiosi di queste tematiche) la netta influenza sui dipinti di queste imperfezioni, nel caso di Monet, fondamentali per la sua acuta percezione della luce, prima, dopo e durante le operazioni di cataratta. Come è doveroso in questo tipo di ricerche, Ceccarelli rimanda all’apparato iconografico, riportato alla fine di ogni singolo capitolo, in modo che il lettore può facilmente verificare lo sviluppo deformante, ma spesso concausa di capolavori, della malattia nei singoli quadri o avere l’immediato riscontro di come una malanno abbia avuto un’influenza enorme nell’immaginario collettivo deisecoli trascorsi.
Altro caso di malattia purtroppo assai diffusa nella contemporaneità è l’Alzheimer. Citiamo, mostrando un saggio della scrittura asciutta e penetrante di Ceccarelli, dotta e comunicativa allo stesso tempo, il caso recente di Willem deKooning, con Pollock uno dei più noti e importanti artisti dell’Espressionismo astratto: “La malattia lo colpì nei primissimi anni Ottanta, quando aveva ormai oltre settant’anni; i suoi numerosissimi dipinti successivi, che de Kooning continuò a produrre quasi fino alla morte nel 1997, appaiono così diversi dai precedenti che alcuni critici li rifiutano, esprimendosi nel senso che «de Kooning non era più lui»; eppure proprio nella sua celebre frase «Io non dipingo per vivere, io vivo per dipingere» c’è il senso del suo continuare a lavorare anche in preda alla malattia: si ha quasi l’impressione che le sue linee divenute più tenui, la scomparsa degli angoli troppo segnati, l’uso dei colori sempre più chiari e delicati nei suoi ultimi dipinti siano – per quanto incredibile – il segno di una serenità interiore mai prima così marcata e raggiunta forse proprio con la malattia».
Sofferenza, malattia e arte quale riscatto dal limite del corpo, in questo caso fonte di pacificazione. Si veda, tra gli altri casi di combattimento con le infermità, piccole e grandi, su tutte le lamentele e la genialità potente di Michelangelo o Caravaggio, il capitolo dedicato a Frida Kahlo, dal titolo emblematico: una pittrice per il senso della sofferenza. Colpita da un grave incidente in gioventù, vittima di diversi aborti, Frida trasferisce nelle tele la sua voglia di vivere e amare contrastata da questi eventi, con una drammaticità particolarmente tangibile nei quadri messi a disposizione del lettore da Ceccarelli, descritti, specie La colonna spezzata del 1944, con una speciale intensità, a indicare nella donna, (morta a soli quarantasette anni) un fulgido esempio di laico martirio in nome dei valori umanistici dell’arte. Desiderosa distudiare medicina,si trovò invece a frequentare da paziente numerose volte gli ospedali: “il modo di dipingere della Khalo è un tentativo, forse l’unico possibile, di manifestare ciò che non è esprimibile: il dolore […] Il suo corpo [in La colonna spezzata] è anch’esso aperto, lasciando vedere come in una radiografia frontale – al posto della colonna vertebrale – una vera colonna ionica, fessurata e rotta in più punti, il cui capitello sostiene comunque il mento della donna. Il volto è inconfondibilmente quello di Frida […] La tecnologia radiologica offre all’artista la possibilità di mostrare in modo nuovo e inaspettato l’esperienza umana del dolore sia nel suo aspetto fisico che in quello, altrettanto importante, psicologico. Frida con questi mezzi artistici tenta su se stessa di catturare ed esprimere qualcosa che resiste e si oppone all’essere espresso e manifestato. Il torace e l’addome sono avvolti dal corsetto, mentre tutto il corpo è cosparso da chiodi,simbolo evidente e chiarissimo del dolore,sopportato, come le lacrime sul volto”.
La sublimità, sembra suggerirci Ceccarelli, consiste nella sopportazione del dolore, nel tentativo di dargli un senso nella misura, anche tragica, dell’arte. Sentimenti che si trasmettono nella commozione di chi guarda i quadri, si declinano nelle interrogazione sul senso della vita e del dolore, che caratterizzano l’esperienza umana, trovando un’eco di immortalità e di tragedia.

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