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Il letterato che avrebbe voluto un Novecento diverso

Qian Zhongshu è un colosso della letteratura cinese e ne incarna lo spirito più profondo senza tralasciare motivi e personaggi della cultura occidentale. Un uomo del Novecento che ha vissuto in pieno le sfide e le contraddizioni del suo secolo spiegato da Tiziana Lioi*, massima esperta italiana in materia.

Ci spieghi brevemente l'importanza di Qian Zhongshu nella cultura cinese?

Qian Zhongshu potrebbe rappresentare il paradigma della cultura cinese del Novecento. Ha vissuto il secolo a tuttotondo, dal 1910 al 1998 e, pur non essendo uno di quei nomi noti anche ai non specialisti del settore, è un colosso della letteratura cinese perché di questa incarna lo spirito più profondo che intreccia a motivi e personaggi della cultura occidentale.
Studioso e accademico più che scrittore, riflette su quasi ogni aspetto dello scibile umano in un’opera saggistica che riesce ad accostare Nixon a Pirandello, Umberto Eco a Sant’Agostino, a Goethe o a Shakespeare, per citare solo alcuni nomi, e questi a scrittori noti e meno noti della letteratura cinese classica e moderna. Studia nell’ateneo pechinese di Qinghua, fucina di menti eccelse, si specializza a Oxford e alla Sorbonne a Parigi, rientra in patria e insegna letteratura inglese in università dell’interno mentre la Cina è sotto l’assedio del Giappone.
Vive la nascita della Repubblica Popolare Cinese e gli anni del maoismo fino alla Rivoluzione Culturale quando, come tutti gli intellettuali, è “stanato” e spedito in campagna per essere rieducato. Torna a Pechino e si rinchiude nella lettura e nello studio per regalarci opere preziose quanto di difficile lettura che non gli varranno mai un successo chiassoso ma che resteranno esempio impareggiabile di erudizione e capolavori di letteratura comparata.
Massimo esperto di letteratura e comparatista di prim’ordine, per usare un termine moderno e forse un po’ azzardato lo potremmo considerare un mediatore fra letterature di ogni tempo e di ogni luogo tra le quali instaura un dialogo e un confronto ad armi pari per far emergere un pensiero universale che anima una letteratura globale.
Quanto rende l'idea l'appellativo “il Pico della Mirandola cinese”?

L’appellativo di “Pico della Mirandola cinese” è calzante per alcuni aspetti, meno per altri. E’ perfetto se pensiamo alla conoscenza di tante lingue, a una memoria straordinaria, a conoscenze enciclopediche. Pico della Mirandola però e la sua fiducia nell’uomo e nella sua capacità di autodeterminarsi sono estranee a Qian Zhongshu che raramente dedica all’uomo un sorriso benevolo e più di frequente è pronto a metterne in risalto debolezze e ottusità.

Com'è nato il tuo interesse per lui?

Sono sempre stata attratta dall'incontro fra la letteratura cinese e quella occidentale. Ricordo la meraviglia provata nel 2001, prima volta in Cina, girando fra gli scaffali dell'enorme libreria di Wangfujing, quando ho visto sulla copertina di un volume il volto di T.S.Eliot e la scritta Huang Yuan, Terra Desolata, in caratteri cinesi. Comprai il libro proprio attratta da questa copertina: mi incuriosiva T.S.Eliot, uno dei miei autori preferiti, tradotto in cinese e l'accostamento fra una poetica così calata nell'Europa del primo dopoguerra e il mondo cinese mi divertiva e stupiva allo stesso tempo.
Quando ho iniziato il dottorato di ricerca ho pensato di voler approfondire proprio questo incontro, o contrasto, fra un sentire cinese e un sentire occidentale, e le pagine dei saggi di Qian Zhongshu mi ricordavano proprio quella copertina di Terra Desolata: righe di caratteri cinesi intervallate qua e là da frasi in greco, latino, italiano, inglese, francese. Ho iniziato a leggere e studiare l'opera di Qian cercando di tracciare con il suo aiuto un percorso che mi portasse da Roma a Pechino e che mi aiutasse a comprendere i punti d’incontro e di contatto fra la mia cultura d'origine e quella d'adozione.

Hai fatto in tempo a conoscerlo o a conoscere sua moglie?

Purtroppo non ho avuto modo di incontrare Qian Zhongshu: è morto proprio nell'anno in cui ho iniziato a studiare cinese. Ho però provato a rintracciare sua moglie, la straordinaria scrittrice Yang Jiang. Dopo una lunga caccia al tesoro per trovare il suo numero di telefono ho parlato con una signora che le tiene compagnia e che mi ha spiegato che ormai Yang Jiang, a causa dell'età avanzata (è nata nel 1911) non riceve più visite, ma che se le avessi scritto sarebbe stata felice di rispondere alla mia lettera, e così è stato.

Dove vive?

Vive in un tranquillo complesso residenziale a Pechino, nella zona di Haidian.

Dall'idea che ti sei fatta, è possibile legare questo scrittore a luoghi particolari di Pechino?

Quando penso a Qian Zhongshu non mi vengono in mente luoghi della città cui legare la sua persona e la sua opera: è troppo universale l’afflato delle sue opere, sono troppi gli spazi reali e immaginari tirati in ballo dalle sue parole. Più che a luoghi reali lo legherei quindi a luoghi ideali: una vecchia biblioteca con scaffali alti e odore di carta, un salotto letterario della prima metà del Novecento dove lui siede in disparte e osserva divertito il movimento degli altri, un parco di fiori e salici piangenti dove passeggia con la compagna di una vita Yang Jiang. Se però dovessi pensare a un luogo dove ambientare una sceneggiatura su di lui, questo sarebbe sicuramente nella zona vecchia di Pechino, in uno degli hutong di Xisi nella zona ovest della città.
I racconti che hai tradotto, oltre a brillare inaspettatamente di humor e sarcasmo, ci offrono lo spaccato della buona società cinese in quel complicato periodo storico che va dalla fine dell'impero alla nascita della Repubblica popolare. C'è qualcosa che ti ha colpito in particolare?

La prima metà del Novecento è un periodo della storia mondiale che mi è sempre piaciuto perché dalle macerie delle due guerre mondiali sono nati la società e l’uomo moderno. Questo è valido per l’Europa come per la Cina e trovo che i racconti di Qian riescano a rendere bene quel processo di formazione di identità delle persone come dei luoghi e quel vivo dibattito intellettuale che ha animato la dialettica storica del secolo scorso. Quello che mi ha colpito dei racconti è forse proprio il modo in cui è descritta e raccontata l’interazione degli uomini con la società dell’epoca, i loro tentativi di controllarla e capirla per restare poi sempre travolti da dinamiche più grandi e universali. I personaggi si muovono tutti convinti delle proprie azioni e tutti restano poi spiazzati da conclusioni inaspettate mentre lo scrittore li guarda dall’altro capo della sua penna con ironia, sarcasmo e, a volte, anche un pizzico di compassione.

Qual è stato il rapporto di Qian Zhongshu con il Partito?

Qian è stato, come tutti gli intellettuali della sua epoca, mandato in campagna durante la Rivoluzione Culturale presso le Scuole del 7 Maggio. Le sue conoscenze, racconta ironicamente Yang Jiang nel suo “Ganxiao Liu Ji” (Sei Ricordi della Scuola per Quadri) gli hanno consentito di svolgere egregiamente il compito di postino. Il Partito però lo aveva anche incaricato precedentemente della traduzione in inglese delle opere complete di Mao Zedong.
Quello che ci interessa è che entrambi questi incarichi, uno al di sotto delle sue capacità e uno di estremo prestigio nella Cina dell’epoca, sono serviti a tenere Qian lontano dalla scrittura creativa e quindi da quello spazio di espressione che il Partito temeva. Qian ha abbozzato, ha resistito, si è chiuso nella lettura e nella difficile ed ermetica scrittura saggistica. Egli stesso si rimprovera una mancanza di coraggio nel dire apertamente quello che pensava e di averlo solo fatto intendere a chi ha avuto pazienza di leggere fra le righe dei suoi saggi. Lo definirei un rapporto da guerra fredda.

E con il Novecento cinese?

Anche con il Novecento cinese quello di Qian è stato un rapporto difficile. Troppe volte ha parlato male dei suoi colleghi letterati e certo questi non potevano rispondere con ammirazione e riconoscimento del suo valore letterario. Troppa è stata inoltre la sua reticenza a parlare delle scelte della Repubblica Popolare, in bene e in male, e quindi anche dalla dirigenza non poteva essere esaltato o portato a esempio di buona letteratura. Qian avrebbe voluto un Novecento diverso, più capace di valorizzare la storia e la tradizione cinese, più capace di costruire e non di distruggere.
Perché nell'introduzione ricordi l'interesse e l'attenzione che un uomo politico come Jian Zeming ha manifestato per quest'intellettuale?

Il mio intento non era quello di ricordare l’interesse di Jiang Zemin per Qian Zhongshu, quanto di richiamare l’attenzione sul fatto che è stato sempre tenuto da parte, mandato in campagna per essere rieducato, zittito per quanto possibile e soltanto negli ultimi giorni di vita ha ricevuto una manifestazione d’interesse dello Stato cinese nei suoi confronti, gesto che fra l’altro probabilmente non avrebbe neanche voluto.

Mi pare che la riscoperta di Qian Zhongshu sia qualcosa di attuale anche nella Cina di oggi. Secondo te perché?

Sicuramente un grande contributo alla riscoperta di Qian Zhongshu è stato dato ultimamente dalla ricorrenza del centenario della nascita, celebrato con articoli su riviste a diffusione nazionale e con convegni che hanno stimolato la ricerca e la diffusione delle sue opere. Ma già negli anni ’80 in Cina l’opera di Qian era arrivata in tutte le case grazie al telefilm tratto dal romanzo del ’47 Wei Cheng (Città Assediata) telefilm che tutti i cinesi con i quali mi è capitato di parlare hanno visto e apprezzato. Gli anni ’80 segnano inoltre anche l’inizio della Qian Xue, studi accademici su Qian Zhongshu, una vera e propria disciplina che studia l’opera e la personalità dello scrittore e che da allora non ha mai interrotto una produzione copiosa di approfondimenti e studi.
Abbiamo scelto di pubblicare uno stralcio di Ispirazione. Fa sorridere che nel brano che presentiamo la mancata assegnazione del Nobel al celeberrimo scrittore cinese si traduce nel delinearsi della situazione che abbiamo veramente vissuto qualche anno fa con l'istituzione del premio Confucio. E poi, qualcosa che abbiamo vissuto ancora più recentemente con l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Mo Yan. Ovvero i “colleghi, dagli occhi rossi di gelosia e verdi d’invidia, avevano già mandato a memoria i commenti che avrebbero fatto una volta vinto il premio, criticando la scelta del nostro scrittore come non appropriata”. Sono cose che hai pensato anche tu o pensi che non sia possibile fare un parallelo?
Non solo penso che il parallelo si possa fare, ma penso sia anche perfettamente calzante. Ho ovviamente pensato allo scrittore di Ispirazione e alla commissione del premio Nobel che, per quanto sistemasse sul naso gli occhiali stringinaso, non riusciva a interpretare quegli strani segni che poi sono stati decifrati come caratteri cinesi sia quando ho sentito del premio Confucio che quando si è parlato del premio Nobel a Mo Yan.
Mi sono sempre chiesta cosa avrebbe fatto Qian se gli fosse stato assegnato il premio Nobel. Nel suo denigrare i colleghi letterati cinesi attraverso la figura dello scrittore del nostro racconto e i professoroni del premio Nobel ho trovato il motivo di una certa impopolarità o distacco di Qian da tutto quel mondo di presunta saggezza che gira intorno alle lettere e che spesso è vuota apparenza e non reale attaccamento ai libri e alla cultura come la vita di dedizione allo studio di Qian non finisce di testimoniare.
Il suo sarcasmo sul premio Nobel può del resto anche essere interpretato come disapprovazione per l’andare alla ricerca di un riconoscimento che serve a poco, che è frutto di giochi politici e non sempre è guidato da reali competenze sia del giudicato che dei giudici. Il fatto poi che un racconto del ’46 sia di stringente attualità indica l’universalità di un sentire che sono contenta di poter portare finalmente all’attenzione del pubblico italiano.

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