femminile plurale
“Frammenti di autocoscienza”, Collettivo femminista Benazir

Se qualcuna o qualcuno non sa cosa sia l’autocoscienza oppure pensi che si tratta di una pratica superata che ha esaurito il suo senso negli anni Sessanta e Settanta dovrebbe leggere il libro “Frammenti di autocoscienza” del collettivo femminista Benazir, edito da Aracne. Esso rappresenta uno strumento utile per comprendere quali siano i fondamenti di questa pratica, quali le sue implicazioni politiche e, altra cosa significativa, come essa di realizzi concretamente. Collocarlo all’interno di un genere non è facile. Lo definirei, per introdurlo, un libro di politica, politica come teoria e biografia, politica che diventa teoria, passando per la biografia.
Il titolo ci introduce alla struttura del libro, una struttura complessa in cui si intrecciano, a fianco di alcuni frammenti dei dialoghi avvenuti durante gli incontri, le riflessioni individuali, sintesi teoriche, in un flusso continuo dall’uno all’altro che oltre ad essere una scelta stilistica molto azzeccata riflette una realtà: il legame naturale tra storia individuale e collettiva e teoria e azione politica, il loro reciproco e inevitabile rimando. Nel riportare questo intreccio tra piano personale e collettivo, tra riflessione, dialogo e ascolto, tra teoria e prassi, il senso dell’autocoscienza si delinea nella sua interezza e nella sua rilevanza. La frammentarietà non significa quindi mancanza di organicità. Al contrario, solo il mettere insieme piani diversi, voci diverse, il dentro e il fuori, il mio, il tuo e il nostro, rende il senso della complessità di una pratica che agisce secondo un movimento dialettico e reciproco dal dentro al fuori, e dal fuori al dentro.
Il punto di partenza da cui muove il libro di Benazir (ovvero “colei che non è stata mai vista così”) è, da un lato, la pratica dell’autocoscienza così come è stata delineata negli anni Sessanta, dall’altro dalla constatazione della sua necessità attuale: il rapporto con il corpo e la sessualità è ancora molto problematico, non risolto. D’altronde, spiegano giustamente le donne di Benazir, certi problemi non si possono risolvere in una generazione e non si risolvono per mezzo del mero riconoscimento sul piano giuridico del diritto di ognuna di gestire liberamente la propria sessualità e il proprio corpo. Il fatto cioè che si siano acquisiti dei diritti sul proprio corpo, che si siano fatte leggi, non significa che il rapporto che abbiamo con esso si sia improvvisamente liberato e sia pacificato. Per questo è necessario del tempo ed un percorso che non può essere scandito dalla nascita di leggi, ma che si realizza per mezzo della ‘presa di coscienza’. Questa non può che provenire da sè, da sè in relazione all’altra, e non da qualcosa di esterno.
Che il rapporto con il nostro corpo sia ancora così complesso si mostra nelle parole che spesso ricorrono per poterlo esprimere. Vergogna e paura, ci dice Benazir, sono parole che ritornano ancora spessissimo negli incontri di autocoscienza. Vergogna e paura sono la faccia di un’unica medaglia: quella della difficoltà nell’espressione di sè, del conflitto tra ciò che siamo e ciò che pensiamo dovremmo essere, vale a dire, tra dimensione personale e aspettative sociali.
Le difficoltà non nascono solo da questo conflitto tra piano personale e costruzione sociale ma anche dai problemi inerenti alla possibilità di comunicazione, di trovare un linguaggio, delle parole per esprimere ciò che si sente. Il disagio, si dice, «deriva da una sorta di saturazione dei concetti, da un tutto pieno di parole: la realtà si presenta a noi come una dimensione carica che non ci lascia spazio. È come se fossimo davanti ad un mondo che ha già detto tutto ed è per questo che noi non abbiamo più voce in capitolo su noi stesse. Nel non riuscire a prendere parola su di sè nasce una sorta di doppia colpa: da una parte viviamo la sofferenza per non essere adeguate al ruolo vincente imposto dalla società, dall’altra esiste una voce che ci ripete che le donne sono emancipate e che , al limite, le diverse siamo noi» (p. 14). Da questa prospettiva, l’autocoscienza si mostra come qualcosa che non ha semplicemente a che fare con il rapporto tra sè e sè. Essa non si esaurisce nell’ autoreferenzialità a cui potrebbe rimandare il nome ‘auto-coscienza’, giacchè la possibilità di questo rapporto autentico con sè può realizzarsi solo per mezzo della possibilità di trovare un linguaggio, ovvero la possibilità di comunicazione con l’altra e, tramite lei, con il mondo. Il fulcro dell’autocoscienza è il contrario dell’autoreferenzialità, ovvero la relazione con quel fuori che qui prende corpo nel corpo dell’altra. L’autocoscienza è quindi una pratica anti individualistica e in ciò rivela come essa sia anzitutto una pratica politica che si discosta, fin dai suoi fondamenti, da ciò che comunemente si ritiene ‘politica’. Essa è una pratica di relazione in cui ciascuna sta di fronte all’altra, sullo stesso piano, e dove ciascuna parola ha uguale legittimità e verità. Nessuna gerarchia, nessun giudizio che dall’alto si impone. Ogni parola è vera, non in quanto ‘giusta’, ma in quanto proveniente da ciò che si è. «Verità significa nudità» (p.18).

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